Bene
o male tutti sappiamo cosa sono i cosiddetti “paradisi fiscali”,
ma non tutti sanno come e quando sono nati.
Il
primo stato ad adottare un aperto ostruzionismo alla lotta
all'evasione fiscale (perché alla fin fine di questo si tratta) è
la stata la Svizzera.
L’inizio
di questo fenomeno è precedente alla Prima guerra mondiale, quando
il Canton Zugo modificò le proprie leggi per agevolare la creazione
di società e holding sul proprio territorio per i cittadini
stranieri. Fu quindi il Canton Zugo, che oggi si stima ospiti circa
29mila società di questo tipo, a dare inizio alla tradizione della
ricerca di capitali stranieri. Il cantone ha fatto parlare di sé nel
2001, quando l’allora presidente statunitense Bill Clinton concesse
la grazia a
Marc
Rich, un cittadino americano condannato per evasione fiscale che si
era rifugiato proprio a Zugo. Anche i banchieri e gli avvocati di
Zurigo – e, in misura minore, Basilea – contribuirono alla
gestione di queste società e dei soldi che facevano arrivare nelle
loro regioni. Negli anni Venti la Svizzera era diventata la meta di
riferimento per i soldi che dovevano sfuggire agli occhi attenti
delle autorità nei vari governi. Questa tendenza ha creato un clima
di risentimento verso i banchieri svizzeri, acutizzato dal loro fermo
rifiuto a cooperare con qualsiasi paese intenzionato a rintracciare
gli evasori. Lo stesso governo svizzero decise di abbracciare questo
approccio ostruzionista: in un verbale del Consiglio Federale
(l’organo equivalente al Governo in Svizzera) del 1924 si legge che
la Commissione dell’Associazione Svizzera dei Banchieri aveva
deciso di respingere «qualsiasi misura per combattere l’evasione».
Fino
ad allora il segreto bancario in Svizzera rappresentava una
consuetudine, ma non era stabilito per legge. Le cose cambiarono nel
1934, quando la Svizzera rese il segreto bancario una politica
nazionale. Secondo la narrazione classica che viene fatta di questa
evoluzione, la decisione fu una risposta all’ascesa al potere dei
nazisti in Germania nel 1933: il segreto bancario sarebbe stato
quindi un gesto umanitario finalizzato a tutelare i patrimoni degli
ebrei dal governo nazista.
Questa
ricostruzione, però, è totalmente inventata. Come ha dimostrato lo
storico Sébastien Guex, il segreto bancario in Svizzera è stato
soprattutto una reazione a uno scandalo poco conosciuto, che ha
diverse analogie con i Panama Papers. La storia inizia nel 1932,
quando il governo francese faticava a raggiungere il pareggio di
bilancio, in un periodo in cui il paese era in grosse difficoltà per
la Grande Depressione. La coalizione di sinistra allora al governo,
consapevole del fatto che molti dei cittadini francesi più ricchi
evadevano il fisco spostando i loro soldi in Svizzera, decise di
avviare un’indagine. Il 26 ottobre le autorità locali entrarono
senza preavviso negli uffici parigini della Banca Commerciale di
Basilea e sequestrarono i registri con i nomi dei 2.000 cittadini
dell’alta società francese che si erano rivolti alle banche
svizzere per occultare al fisco i loro patrimoni. I conti di ricchi
imprenditori, come i fratelli Peugeot, e di importanti politici
divennero di dominio pubblico. Il segreto era stato rivelato, e
spinse anche molte delle persone che non erano state identificate a
ritirare i loro soldi dalla Svizzera.
Il
governo francese cercò di costringere la Svizzera a consegnare altre
informazioni, arrivando ad arrestare alcuni funzionari legati alla
Banca Commerciale di Basilea. Per la Francia non era una questione di
secondo piano: stando alle stime di Guex, il governo francese aveva
perso oltre 2 miliardi di franchi in gettito fiscale per colpa
dell’evasione. Le autorità francesi, perciò, continuarono a
prendere di mira le banche svizzere.
La
Svizzera però non rimase a guardare. Un funzionario del governo
scrisse che «non sarebbe assolutamente nel nostro interesse
garantire alle autorità francesi una cooperazione giudiziaria che
potrebbe avere conseguenze estremamente negative sulle importanti
attività che le nostre banche svolgono grazie a depositi stranieri».
In realtà le banche svizzere stavano già affrontando grossi
problemi, e non solo per colpa dei depositi poco trasparenti. La
Grande Depressione aveva messo in ginocchio il sistema finanziario,
spingendo molti svizzeri a chiedere maggiore controllo, come accadde
nello stesso periodo in diversi altri paesi. Un controllo maggiore,
tuttavia, comportava grandi rischi: le autorità federali averebbero
avuto accesso a informazioni sugli intestatari dei depositi, che
sarebbero poi potuti diventare pubblici, allontanando ulteriormente i
cittadini stranieri disposti a depositare i loro soldi in conti
segreti.
Le
due parti quindi raggiunsero un accordo. Le banche svizzere furono
sottoposte a maggiore controllo da parte dello stato nei termini
previsti dalla legge bancaria del 1934, il cui articolo 34 però rese
la divulgazione dell’identità dei clienti delle banche a governi
stranieri un reato passibile di reclusione e pesanti sanzioni. La
legge, che impose il “silenzio assoluto” a tutti i custodi di
denaro svizzeri, funzionò. I fondi stranieri ricominciarono a
confluire verso la Svizzera e il suo sistema bancario e, nel
frattempo, gli svizzeri avevano creato un modello che altri paesi
avrebbero potuto emulare nel caso avessero voluto attrarre capitali
stranieri.
Così
nacquero i “paradisi fiscali” off shore. Nel secondo dopoguerra,
diversi paesi adottarono il modello svizzero: il Libano, le Bahamas,
l’Uruguay, il Lichtenstein e, ovviamente, Panama.
Successivamente,
questo modello fu copiato da altri paesi ed oggi (2018) una stima
abbastanza aggiornata parla di circa 40 paesi dichiarati “paradisi
fiscali”.
Questa
è la storia di come si crearono i cosiddetti paradisi fiscali.
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